di Fabrizio Primoli
«Sub anno Domini millesimo trecentesimo vigesimo tertio, Pontificatus Sanctissimi Patri et Domini, Domini Ioannis, Pape XXII». Con queste parole si apriva il documento, redatto presso il Palazzo Vescovile del tempo dal regio notaio Lorenzo di Nicola Angelo e datato 28 febbraio 1323, che segnò la data di nascita di quello che poi divenne il complesso ospedaliero di Sant'Antonio Abate.
Il documento recava, come attesta lo storico e canonico aprutino Nicola Palma, la bolla del Vescovo Niccolò degli Arcioni con la quale questi concesse al teramano Bartolomeo Zalfoni taluni privilegi, di cui appresso si dirà, per la sua meritoria opera di apertura di un luogo di ricovero e assistenza per i bisognosi della Città, a cui diede la denominazione di Ospizio di Sant'Antonio Abate e per le finalità del quale mise a disposizione alcune sue case site nell'attuale zona di Porta Melatina.
Il Vescovo, nel provvedimento in questione, indicò Bartolomeo Zalfoni quale «hospitalario» di Sant'Antonio Abate e ricondusse alla «divina inspirante gratia» la lodevole iniziativa di realizzare un luogo di ricovero e assistenza per i malati e i poveri, «acciocché potessero al presente e in avvenire servire il Signore e pregarlo con maggiore devozione e tranquillità per i benefattori e per la redenzione dei loro peccati».
Una grande lapide in marmo, un tempo posta nell'atrio dell'ingresso principale del complesso ospedaliero e oggi scomparsa, ricordava l'episodio con queste parole:
NEL XXVIII FEBBRAIO MCCCXXIII
B A R T O L O M E O Z A L F O N I
DI TERAMO
FONDÒ QUEST'OSPEDALE
Con il consenso del Capitolo aprutino, il Vescovo attraverso tale bolla accordò diversi benefici all'istituzione appena sorta: il nuovo Ospizio venne esentato da ogni potestà e giurisdizione vescovile, temporale e spirituale, per i beni mobili e immobili sia presenti che futuri. In sostanza, l'Ospizio e tutte le sue proprietà vennero esentati da ogni norma diocesana e da ogni diritto, dominio e potere episcopale.
Fu tuttavia riservata al Vescovo e ai suoi successori, nonché ai mebri del Capitolo aprutino, l'annua prestazione di un pranzo da offrirsi ogni 17 gennaio, in occasione della festività di Sant'Antonio Abate. Il pranzo consisteva in «dieci rotoli di carne porcina ed una focaccia». Diversi secoli dopo, il 13 ottobre 1813, l'allora Ministro dell'Interno disporrà tuttavia che «invece della carne porcina e del pane benedetto, ai canonici della Cattedrale aprutina che hanno l'obbligo dell'officiatura e della messa solenne nella vigilia e nel giorno del Santo saranno prestate a ciascuno dei medesimi, annualmente, lire francesi sei, quando seguitassero negli atti individuali di culto».
Al Capitolo aprutino sarebbe spettata, in base alla bolla in parola, anche la nomina dell'ospedaliere. Soltanto in caso di negligenza da parte del Capitolo, la nomina sarebbe spettata direttamente al Vescovo. L'ospedaliere avrebbe avuto il compito di amministrare i beni temporali dell'Ospizio e a lui solo sarebbe spettata la nomina del cappellano, non potendo questi ricoprire anche tale incarico. Al cappellano venne affidata la cura spirituale del complesso e venne assegnata una modesta retribuzione pari a «libras decem usualis monete».
Questo stato di cose, pur con qualche contrasto e alcuni tentativi di ingerenze estranee, si mantenne inalterato per ben cinque secoli, sino ai primi anni dell'ottocento. Dai resoconti di una visita pastorale effettuata nella struttura dal Vescovo Giulio Ricci nel 1583 risulta, tuttavia, che nel tempo la gestione dell'Ospizio venne avocata direttamente dal Capitolo aprutino.
Col volgere dei secoli, comunque, il complesso ospedaliero di Sant'Antonio Abate vide moltiplicarsi le rendite per le oblazioni e i lasciti dei molti benefattori. Accrebbe la disponibilità dei locali, migliorò e rinnovò progressivamente le suppellettili e gli arredi ed allargò la sua benefica sfera d'azione.